Ho bisogno di esplosioni intorno, mentre non riesco nemmeno a contare i cocci di mie continue fragorose implosioni sorde all’udito altrui.
– E certo – dice lui – come possiamo sentire che crolli a pezzi se lo fai silenziosamente?
Non ha tutti i torti, in effetti. Me lo dico da tempo: il problema è che pretendo mi si capisca quando nemmeno io so capirmi. Comunque penso sia un problema generale: sentirsi incompresi, senza fare lo sforzo di farsi comprendere. Giudicanti, ma con la paura di essere giudicati.
L’altro giorno durante l’intervallo ho chiesto a una ragazzina come stesse. Era palesemente alterata per qualche fatto. Non mi ha risposto. Non ho insistito.
Ci penso, sai. Spesso penso a quanto poco spazio ho dato alla possibilità di aiutarla a raccogliere i suoi cocci per metterli da parte. Non credo troppo a quell’arte giapponese per rincollarli con liquido d’oro e farci tesoro. Piuttosto credo al fatto che un pugno di cocci raccolto sia un po’ più di ordine in quel caotico mare che è l’umana anima, un cosmo di piccoli rifiuti gettati qua e là in un tragitto caratterialmente indirizzato.
In quel momento ho pensato non avesse bisogno di quella domanda, mi son fatta da parte.
Ascoltare è il motivo che dovrebbe spingerci a mettere al mondo vite. Non pretendere che ci ascoltino, ma ascoltarle. Questo è il dono più grande per chi nasce, promettere ascolto eterno che è a priori l’amore.
Abbiamo tutti bisogno di essere ascoltati, nasciamo non per imparare cose, ma per dire qualcosa.
Nasciamo piangendo, è la prima cosa che chiediamo l’ascolto. Prima ancora di esser visti. Prima ancora di esser toccati. Prima ancora di essere annusati. Prima ancora di essere assaporati nei baci delle coccole.
Il pianto, l’ascolto.
– Parla, se vuoi essere ascoltata. Tu parla. Chiama. Scrivi. Chiedi. Vieni quando vuoi, parla con noi. –
Un po’ di tempo fa mi sono trovata a fare un discorso con mia nipote di tre anni e mezzo. Parlavamo di bambole, coperte per il letto e animali del bosco. Siamo andate avanti a lungo a chiacchierare. L’ho ascoltata e ho risposto a tutte le sue domande, mentre giocavamo. A un certo punto ha cominciato a chiedermi di vaccini, malattie e libertà. Lo ha fatto come un bambino di quell’età può fare, con semplici parole e semplici quesiti. Semplici, sì… per noi così complessi adulti. Nel suo domandarmi l’attualità in dubbi da bambina, sono entrata in punta di piedi, con tutto il rispetto possibile, senza sminuire nulla, cercando di rispondere a tutto.
Io credo, insomma ecco io credo che da quel momento siamo uscite entrambe rinnovate. Non contano l’esperienza, la maturità, il percorso di studi, la cultura. Conta farsi della dimensione necessaria per lasciare entrare l’altro e accoglierlo senza farlo sentire troppo povero, troppo piccolo, troppo stretto, troppo fuori posto.
Ché poi, farsi semplice verbo è più complicato che uscirsene con complessi giri di parole.
– Senti, cara, te lo avevo detto qualche anno fa. Semplicità e buttare fuori ciò che è dentro rispettando chi è lì fuori. Saper farsi capire, per saper essere ascoltati. –
“Saper farsi capire per sapere essere ascoltati”, ma anche saper ascoltare per permettere di farsi capire.
Dai nonno, mi sa che sto iniziando a vaneggiare… Ora vado a casa che se no mi chiudono qua dentro. Torno domenica, per rinnovare l’acqua. Se trovo un altro ragno lo caccio via, come quello di prima. Vedi, cosa ti perdi qua? Ballo coi ragni, per scuoterli via dai fiori.
– Torna quando vuoi, non preoccuparti delle margherite. Beati i fiori che appassiscono perché ancora sono vivi… –
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